Wednesday, October 30, 2013

SENZA PUDORE

LEGGERE certe notizie però fa venire una rabbia incontenibile. Come può un ragazzo di 21 anni uccidersi perché gay? Colpa della società in generale e delle famiglie in particolare. Colpa degli educatori e dei sacerdoti di qualsiasi religione che non sanno aiutare. La responsabilità principale però ce l’hanno i gay pride che con le loro pagliacciate credono di rivendicare libertà e diritto, e invece danno il cattivo esempio di cosa deve essere il gay. Detto ciò, è giusto “approfittare” del suicidio di un ragazzo per avviare un dibattito sociologico o psicologico su un tema dove peraltro non sembrano esservi certezze? No, non lo è. Perché la morte di quel giovane è troppo drammatica e particolare per affondare nel mare anonimo delle statistiche e dei luoghi comuni". Lo scrive Laura Fasano, vicedirettore de Il Giorno", sul suo blog "Crema e Cioccolato".
Signora Fasano ma di cosa stiamo parlando? Si rende conto di quello che dice? Se ne prende la responsabilità? Su quale base si arroga il diritto di dire ciò' che "il gay" (neanche fosse una professione) deve o non deve fare? Anche io, per una parte della mia vita ho avuto alcune riserve verso manifestazioni come il gay pride, perché in qualche modo pensavo che consolidassero un'idea di omosessualità stereotipata e un po' forzata. Poi ci sono andato e ho cambiato idea: ciò che pensavo era un fottuto pregiudizio. Per l'amor del cielo, mai mi è passata per la testa l'idea terrificante da lei espressa di "pagliacciata che pretende di rivendicare libertà e diritto". Semplicemente mi sembrava che il lato sociale e politico di questa manifestazione che, le ricordo, commemora gente che è crepata, fosse troppo in secondo piano rispetto alla spettacolarizzazione. Poi, come dicevo, ci sono andato e sono rimasto sorpreso. Perché ho visto una grande festa. C'era gente di tutti i tipi e colori (comprese famiglie con bambini che, le assicuro, si divertivano moltissimo). E quello che lei insulta con l'epiteto di "pagliacciata" è invece davvero una rivendicazione di libertà e diritto. Libertà e diritto ad essere quello che si è e comunque sia. Affermazione di una normalità molto diversa da quella, borghese piccola piccola, di cui trasudano le sue parole. Una normalità che nasce dall'accoglienza serena e totale della diversità, di tutte le diversità e che proprio perché pienamente riconosciute e rispettate alla fine non sono più così diverse. E poi cosa intende per pagliacciata? Glielo dico io. Parla di gente che balla sui carri. Di gente troppo tra-vestita o troppo svestita. E quindi? Praticamente ogni sera, verso le 19:00 e su ogni canale televisivo, tra letterine, letteronze, veline e velini c'è un piccolo gay pride nelle case di tutti gli italiani. Quindi mica ci scandalizzeremo se gli stessi outfit vengono utilizzati all'interno di una dimensione festaiola di un giorno d'estate. O magari anche lei è una di quelle che parla di orge a cielo aperto e sotto gli occhi dei bambini. Forse ero distratto, ma non le ho viste. Poi magari, a tarda notte, ci saranno state pure quelle. Ma in posti al riparo da occhi indiscreti e fuori fascia protetta. Se lei è una giornalista e vive a Milano saprà che da sempre vi sono luoghi in cui la gente, eterosessuale o omosessuale poco importa, si ammucchia allegramente con pieno e sacrosanto diritto di farlo. Se poi quello che le da fastidio è che la comunità gay richieda di essere vista, riconosciuta e "compresa" (in senso etimologico) e che manifesti tale richiesta con il linguaggio della festa e non con quello melodrammatico dei talk show "mausoleo dell'eterna infelicità" è un problema squisitamente suo. E che la sua deontologia di giornalista non dovrebbe consentirle di renderlo paradigma per l'opinione pubblica. Quindi, per concludere, il problema non è il gay pride (nessuno si è mai suicidato per una celebrazione del rispetto e del "diritto ad esistere" portata avanti in piena legittimità, legalità e civiltà a suon di musica e balli in piazza). Il problema è lei, e le persone come lei. Quelle che si permettono di puntare il dito contro coloro che, a seguito di un fatto grave come il suicidio di un ragazzo, avviano un "dibattito sociologico o psicologico su un tema (l'omosessualità) dove, secondo lei, non sembrano esserci certezze". Di nuovo, di che cosa stiamo parlando? Di certezze su questo tema ce ne sono eccome: l'esistenza riconosciuta in primis e il diritto ad esprimerla nella massima libertà che deve essere garantita ad ogni essere umano. E il dibattito serve a trovarne altre e poi a condividerle perché vengano accolte e percepite come nutrimento e valore per l'intera società. In modo tale che, magari, l'orientamento sessuale e l'identità di genere, prima o poi, non abbiano più bisogno di diventare motivo di orgoglio (o di vergogna) ma siano una caratteristica con lo stesso peso del colore dei capelli. Le sue personalissime proiezioni invece creano paura, disagio e discriminazione. Sono le stesse, odiosamente ipocrite, di quelle famiglie, di quegli educatori e sacerdoti contro i quali lei punta il dito. E che come dimostrano i fatti, quelli che le provocano "rabbia incontenibile", possono davvero portare un ragazzo di 21 anni a gettarsi dalla finestra. Quindi, almeno per la parte che le compete, si vergogni e rifletta, invece di pontificare.

Friday, June 21, 2013

MAC CITY

Una domanda. Perché mai una persona sensata si fa un hamburger da MacDonald’s? Certo, i gusti sono gusti, ma in questo caso che gustaccio! Io avevo quindici anni quando ho addentato il primo Big Mac. Quello stravagante mix di cipolla semicotta, carne semicotta, cetriolo appassito ecc. mi ha provocato unimmediato e alquanto sconveniente vomito “on the road”. Ed è successo a molti. Nonostante tutto iristoranti della grande emme sono cresciuti, belli e pasciuti. Nonostante i panini così così, le patatine con disfunzioni erettili e la Coca Cola annacquata. Il motivo di tale successo? Il piacere di ingerire puro, autentico e perverso veleno. E che si fottano dottori, dietisti e laboratori di analisi. Passiamo al Whiskey. Poi lo si apprezza, ma ricordate il primo sorso? Fa male, brucia la gola, ma proprio per questo è da eroi.  Per lo stesso motivo si incomincia a fumare… Eh si, la sana e robusta costituzione fisica si conquista anche con una certa frequentazione del peccato e del lato selvaggio della vita. Pensiamo al sesso, al cosiddetto amore che si vende a ore. Io in un bordello non ci sono mai stato. C’è stato, una volta, “un amico”, uno decisamente più avvezzo di me per le cose sconvenienti. Interessa sapere come funziona? Il posto fisico;lo si sceglie su Internet. Poi si passano un paio d’ore a dire a se stessi non lo faccio, non ci vado, che cazzata, ma figuriamoci e nel frattempo ci si veste di tutto punto e si salta sul primo taxi. Sentendosi un po’ come 007 al servizio di sua maestà. Anche perché è indescrivibile quante parole non dette e quali complicità sia in grado di attivare la semplice comunicazione di un indirizzo al tassista. Una volta arrivati si entra nel Taj Mahal del peccato(attraverso una scala anonima), si viene accolti da una signora piuttosto ordinaria e si viene fatti accomodare in un salotto dove, dopo pochi minuti,sfila una dozzina di ragazze in costume da bagno con una fascia numerata stile Miss Italia. Se ne sceglie una e con lei ci si apparta in una stanza, normalmente più che decorosa. E in quel momento comincia lo show. Un bicchiere di Whiskey, un bagno caldo, un sigaro cubano, un altro Whiskey e un altro ancora. E lei che ti sfiora (sfiora, non tocca), ti travolge di profumi e parole di apprezzamento che nemmeno il sultano di Brunei. E tu voli, voli alto e volteggi nel cielo. Puoi avere un piccolo impatto con la dura realtà, come è successo al mio amico che, in un afflato neorealistico ha chiesto “perché lo fai”, pronto ad accogliere una storia lacrimevole da piccola fiammiferaia. Lei a tale domanda ha risposto “ovviamente lo faccio per soldi”. Che è un modo educato per dirti “io farò pure la puttana, ma tu sei un professionista della più borghese stronzaggine”. Finito il siparietto si ricomincia a volare tra uno sfioramento e un bicchiere di Whiskey. A questo punto vola tutto tranne ciò che dovrebbe e che, riluttante, punta irrimediabilmente verso terra. E’ la fine poco gloriosa di ciò che fino a un’ora prima e in un eccesso di autostima avevi definito con gli amici “il braccio violento della gente” o l’”obelisco di Axum”. Pazienza, tanto il tempo è scaduto, la tacca sul fucile l’hai messa e hai messo anche una cifra a due zeri sulla carta di credito. Te ne vai poco soddisfatto nei sensi. Un po’ barcollante ma felice nell’orgoglio per la prova di coraggio superata. Sulle stesse orme lasciate da Holden Caulfield. Eh si. Il peccato serve. Serve eccome. Fortifica il sistema immunitario. Crea anticorpi e, diciamocelo, è un sacco figo. Lo sappiamo dai tempi dell’adolescenza, dove i nostri modelli non erano mica i primi della classe o Mino Reitano. Ho anche avuto anche amici che, di tanto in tanto, frequentavano i casinò. Io mi limitavo ad accompagnarli. Non solo perché la fortuna mi evita come la rogna, ma perché non provo il benché minimo entusiasmo neppure per la schedina del Totip. Ma andarci, ogni tanto, non era male. Gustarsi quel borghese e immorale scialacquio di denaro, gli abiti da sera, l’orchestra e i rituali della “bella vita”. Avere, per qualche ora, come unico pensiero, l’interpretazione del proprio scintillante personaggio. Bei tempi quelli in cui si peccava. E non erano mica tanto lontani. Non erano gli anni ruggenti. Era una manciata di stagioni fa. Poi le mille luci si sono spente. Non solo a Las Vegas. Anche a Milano. New York forse continua a non dormire. Ma Milano, che comunque dormiva molto poco, si è affossata in uno strano torpore. Quello della crisi rassegnata. Quello delle bottiglie basso prezzo/alto stordimento da nascondere con il sacchetto del pane. Le luci sono diventate strisce di LED da emporio cinese che circondano vetrine oscurate e decorate con signorine pettorute. Tante vetrine. Ovunque. Con insegne farloccamente roboanti. Cose tipo “Imperial Casino con sala fumatori”. Dove è finito il fascino perverso? Dove sono le atmosfere proibite di Eyes Wide Shut? Sono morte. La crisi ha colpito anche il peccato, lo ha reso più volgare, quasi banale e incredibilmente squallido. Il discount del piacere. Il mercatone del proibito. La trasgressione in formato famiglia. Ed ecco che tra un panettiere e un fruttivendolo c’è un centro massaggi cinese. Niente Whiskey, niente cerimoniali e niente massaggi. Ci si sdraia su un lettino. Si chiudono gli occhi. Una poveraccia si da dà fare producendosi alla meno peggio in quella attività che gli uomini sanno fare benissimo anche da soli e dopo quindici minuti avanti il prossimo. C’è più eros in uno studio dentistico. Ma una volta usciti, tra una farmacia e un negozio di telefonini, impossibile non imbattersi in altre vetrine oscurate. Quelle che annunciano le sale fumatori. All’interno si tenta la fortuna. Ma non è il Cesar’s Palace. E’ una fila di fluorescenti  macchinette mangiasoldi maneggiate da umanoidi magrissimi, catatonici e con la pelle bluastra. Vestiti come capita. Che si atteggiano con lo stile di una riunione condominiale di ratti. Perché certo, con questa crisi, giocare d’azzardo non è un vizioso sollazzo. E’ roba da stronzi. Continuando a passeggiare, per poco ancora, vista l’attrattività del paesaggio, è poi praticamente impossibile non imbattersi in un negozio di sigarette elettroniche. Ok fumare fa male. Per alcuni leggere sul pacchetto che invecchia la pelle è anche peggio di immaginarsi cadavere. E’ quasi meno disdicevole pippare cocaina. Ma la soluzione proposta da questi nuovi centri del vizio lecito (e pertanto ben poco affascinante) è la Pelikan Vaporella. Che a quel punto tanto vale smettere del tutto pur di non farsi vedere evaporare agli angoli di strada coma la valvola di una pentola a pressione. Non che si voglia difendere – contro ogni ragionevolezza – il fumo. Che fa male e tutti lo sanno. Che deve essere dissuaso il più possibile. Ma poi ognuno decide per se e se ha voglia di intossicarsi consapevolmente credo abbia il sacrosanto diritto di poterlo fare (Mac Donald’s docet). Ma come immaginare Humphrey Bogart, Marlene Dietrich o Steve Mc Queen con una stilografica penzolante fra le labbra? Ci hanno tolto il lavoro, ci hanno tolto i soldi, ci hanno tolto anche la libertà di peccare, la possibilità della successiva redenzione come presupposto per nuovi e ancora più entusiasmanti peccati. Li hanno spogliati della loro demoniaca nobiltà e li hanno rivestiti di squallida straccionaggine. Hanno sostituito il piacere dello stupefacente godimento con roba tagliata malissimo e sedativi a buon mercato. Ora abbiamo il peccato placebo, privo di alcun effetto a parte quelli collaterali. Altrettanto letali. Perché è tutto da dimostrare che ci salvaguardino dalla chiusura anzitempo del sipario della vita. Ma una cosa è sicura. Che comunque vada, a Mac City, il sipario non chiuderà più un palcoscenico illuminato e inondato da applausi scroscianti. Oscurerà semplicemente le vetrine un fast food che puzza di olio fritto e patatine con disfunzioni erettili.

Wednesday, May 22, 2013

TI SALUTO


Copio e incollo dal blog di Giorgia Vezzoli e di tutte le (e gli altri) che l’hanno condiviso

#TI SALUTO

In Italia l’insulto sessista è pratica comune e diffusa. Dalle battute private agli sfottò pubblici, il sessismo si annida in modo più o meno esplicito in innumerevoli conversazioni.
Spesso abbiamo subito commenti misogini, dalle considerazioni sul nostro aspetto fisico allo scopo di intimidirci e di ricondurci alla condizione di oggetto, al violento rifiuto di ogni manifestazione di soggettività e di autonomia di giudizio.
In Italia l’insulto sessista è pratica comune perché è socialmente accettato e amplificato dai media, che all’umiliazione delle persone, soprattutto delle donne, ci hanno abituato da tempo.
Ma il sessismo è una forma di discriminazione e come tale va combattuto.
A gennaio di quest’anno il calciatore Kevin Prince Boateng, fischiato e insultato da cori razzisti, ha lasciato il campo. E i suoi compagni hanno fatto altrettanto.
Mario Balotelli minaccia di fare la stessa cosa.

L’abbandono in massa del campo è un gesto forte. Significa: a queste regole del gioco, noi non ci stiamo. Senza rispetto, noi non ci stiamo.
L’abbandono in massa consapevole può diventare una forma di attivismo che toglie potere ai violenti, isolandoli.

Pensate se di fronte a una battuta sessista tutte le donne e gli uomini di buona volontà si alzassero abbandonando programmi, trasmissioni tv o semplici conversazioni.
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Pensate se donne e uomini di buona volontà non partecipassero a convegni, iniziative e trasmissioni che prevedono solo relatori uomini, o quasi (le occasioni sono quotidiane).

Pensate se in Rete abbandonassero il dialogo, usando due semplici parole: #tisaluto.

Sarebbe un modo pubblico per dire: noi non ci stiamo. O rispettate le donne o noi, a queste regole del gioco, non ci stiamo.
Se è dai piccoli gesti che si comincia a costruire una società civile, proviamo a farne uno molto semplice.
Andiamocene. E diciamo #tisaluto.

Sunday, March 03, 2013

LA FINE, DALL'INIZIO.


Era oggi ed era tre anni fa. Un weekend di inizio marzo. Un’ipotesi di serata in discoteca – dove non vado davvero mai – con gli amici. Tra una cosa e l’altra, come spesso succedeva, ci infilavo una telefonata a mia madre. Niente di che. Giusto un saluto e sapere come stava. Poco più di un minuto. Quella sera il telefono suonò a vuoto. Sarà uscita un momento, pensai. Su questo punto, io e mia madre eravamo veramente agli antipodi.  Se io non la trovavo (e succedeva di rado) la pensavo a fare la spesa. Se era lei a non trovare me, invece, quasi sicuramente era successo qualcosa di tragico. E sottolineo che per mia madre “qualcosa di tragico” poteva essere anche un raffreddore o un’unghia incarnita. Si sa come ragionano le mamme. Si sa con quanta ostinazione si oppongono all’idea che i figli crescano e che, crescendo, riescano – più o meno – a prendersi la benché minima responsabilità sulla propria vita. Nel mio caso, e soprattutto nella cura della salute, questa ostinazione un fondo di ragione l’aveva eccome. Comunque quella sera, mia madre non era uscita a fare shopping. Lo realizzai molto presto, quando ricevetti una telefonata da parte di mia cugina. Mi comunicava che mia madre era stata male. Molto male. Fortuna volle che in casa mia ci fosse Marco in attesa con me della rutilante notte discotecara. Fortuna volle che Marco decise di accompagnarmi (non l’ho mai ringraziato abbastanza per questo gesto) in una corsa di 200 chilometri verso l’ospedale dove, nel frattempo, l’ambulanza aveva portato mia madre. Arrivai dopo mezzanotte. Con la strana sensazione che lei, nel frattempo, fosse già andata via. Fortunatamente non era così. Era viva. Sorridente. Ironica. Come se quell’ictus che l’aveva colpita fosse davvero niente rispetto a un raffreddore che potesse colpire me. Quella fu l’ultima notte in cui ho pensato che, in fondo e fortunatamente, la mia mamma “highlander” ce l’avesse fatta. Che quello che per i più era un gran casino, per lei fosse un incidente di percorso. Che ci sarebbe stato un mese di convalescenza, forse due, e poi l’avrei ritrovata come nuova. Non fu così. Era l’inizio della fine. La sua fine. E l’inizio di una mia battaglia. Persa. Non perché dovessi lottare insieme a lei. Quella era la parte facile. E neppure faticosa. Una persona non ha idea di quanta energia, impensabile in condizioni normali, un organismo umano riesca a mettere in campo quando succedono le tragedie. La lotta, quella persa, era verso il mondo intorno. Verso i medici per cui mia madre era poco più che un elemento statistico o il nome da inserire in calce a un protocollo terapeutico. Per me era mia madre. Verso le strutture sanitarie per cui quando c’è un’età anagrafica importante “la vita uno se l’è fatta e tanti saluti”. Per me era mia madre. Verso la sufficienza annoiata del personale ospedaliero che, avendone viste di tutti i colori, era adeguatamente munito di corazza emotiva. Per me era mia madre. Da quel giorno, per tutti i giorni che sarebbero restati, la battaglia l’avremmo dovuta combattere da soli. Mia madre con le preghiere e con i voli pindarici in cui l’ospedale scompariva e lei era di nuovo a casa, affaccendata tra le parole crociate e quei libri che, da sempre, divorava con gusto. Io, che con le preghiere avevo poca dimestichezza, nel coltivare comunque la speranza. Pensando che se Dio esiste, esiste per tutti, anche per quelli che, come me, hanno smesso di cercarlo. E nei momenti di tregua eravamo noi due. Io e mia madre. A parlare delle persone che avevamo vicino. A immaginare il futuro. E nel futuro ci sarebbero stati viaggi (dimenticavo, mia madre oltre a libri e cruciverba era un’instancabile viaggiatrice), vacanze, la Pasqua con il pranzo tradizionale da organizzare con i parenti. Perché tutto non poteva che mettersi per il meglio. Questo incidente sarebbe stato solo una delle tante “avventure della vita”. E una volta passata avremmo pure avuto l’arroganza di riderci sopra. E l’avremmo fatto con le zie (instancabili e inossidabili: degne e fiere sorelle di mia madre), con gli amici, attorno a un tavolo esondante di bottiglie e leccornie. Perché anche noi, come i soldati in guerra, avevamo bisogno di aggrapparci a un “altrove possibile”, per poter dire a noi stessi che c’era ancora una possibilità. Non c’era. Perché presto arrivò una polmonite. Poi un attacco cardiaco. Ragione di più per volare lontano. Anche per non pensare all’unica probabilità di sopravvivenza a cui nessuno dei due avrebbe potuto abituarsi. Quella di una vita definibile tale solo da un punto di vista meramente biologico o scientifico. Per me era mia madre. E io ero suo figlio. Non più il figlio accondiscendente. Spesso ribelle. A volte anche assente, lontano, evitante e mutante. E lei era mia madre. Non più quella nevrotica. Non la leonessa capace di sbranare me o chiunque mettesse in discussione i suoi ferrei principi, come di sciogliersi come burro in un falò sull’onda di una semplice carezza. Eravamo cambiati in quei giorni. Eravamo tornati dalla stessa parte. Sono cambiato in quei giorni. Tornavo a casa, la sera tardi. A volte andavo a letto vestito, perché ero cosciente che la situazione non doveva, ma poteva precipitare da un momento all’altro. E prima di andare a dormire, mentre mi lavavo i denti davanti allo specchio, sorridevo all’idea di quei precedenti quarant’anni passati a ripetermi come un mantra “non sarò mai come i miei genitori”, e ritrovarmi poi a guardare riflessa nello specchio la sintesi perfetta di entrambi. Poi arrivava il mattino e quello che non doveva succedere non era successo. Poi le parole cominciarono a mancare. Ma non servivano più. Bastavano gli occhi. Quei sorrisi bugiardi, quanto indispensabili,  a  dire che “va tutto bene”, quando tutto stava precipitando. Ma era importante che fosse così. Per me bastava appoggiare la testa sul suo cuscino. Vicino alla sua testa che, col passare dei giorni, era diventata l’unica parte del suo corpo che le assomigliasse ancora. Per sentire il suo respiro, l’ultimo resistente istinto di vitalità. Per sentire il suo odore di pulito e cercare in qualche modo una via di scampo da quel tanfo di burro rancido da stanza d’ospedale che, ancora oggi, al solo pensiero mi porta lo stomaco in gola. E alla fine arrivò il momento di salutarci. Chiaro e potente come il più impenetrabile dei misteri che neppure la pachidermica arroganza umana è mai riuscita a sfiorare. Mia madre si addormentò. E la mattina dopo, si concesse un cucchiaio di “alimento” non meglio identificato. Poi, mentre io non c’ero, fece tre respiri profondi e morì. Quando arrivai, lei era davvero andata via. Era già vestita, sdraiata su un tavolo con un rosario tra le mani. Un involucro vuoto. Gli occhi erano chiusi. La bocca anche, fissata in un sorriso insensato e inespressivo. Anche quelle due rughe che si allungavano in parallelo sopra il naso a fiancheggiare le sopracciglia erano sparite. Potevo ritrovare tutto ciò disegnato sul mio viso. Mia madre era via. Non so dove, ma per sempre. E in quell’ultimo saluto di un giorno prima c’era stata una implicita promessa. Che me la sarei cavata da solo. Che avrei trovato la mia strada, aperta da quel definitivo saluto. Che sarei stato libero. Che avrei finalmente accettato di diventare grande. Quella promessa, come molte altre precedenti, l’ho mantenuta solo per una piccola parte. Dato che c’ho messo tre anni. Solo per riuscire a raccontare l’inizio che procede dalla fine.

Thursday, January 24, 2013

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IO SONO OGNUNO DI LORO.

Wednesday, December 26, 2012

UNA STORIA DA UN CENTESIMO

Perfino qui, con la Francia di mezzo, la televisione non fa che un gran parlare dell’andirivieni di Berlusconi, del presunto salvifico Monti e del prete di Lerici che “se una donna viene ammazzata o stuprata se l’è andata a cercare”. Niente di straordinario, dal momento che anche qui i canali dal 4 in poi sono di proprietà di Mediaset España (salvo il 47, quello islamico). E’ che se sono qui, a Barcellona, è perché voglio una pausa, anche di riflessione. Rispetto a tutta una serie di deprimenti idiozie che sono, in Italia, un amaro pane quotidiano da cui seppur con tutto lo sdegno dovuto da un senso di cittadinanza e, prima ancora, di umanità, devo nutrirmi. Intendiamoci, non che la Spagna sia un altro pianeta. Appena arrivato, nel palazzo in cui vivo sono stato assalito da almeno un paio di vicini che mi hanno chiesto se per caso avevo qualche amico interessato a comprare il loro appartamento. Le strade sono relativamente vuote, considerando il periodo natalizio, e i negozi anche di più. Perfino il bar - un bar di quartiere – che è il vero motivo di questo mio soggiorno  (non per strafogarmi di birra, o perlomeno non solo, dato che è li che sto scrivendo un libro), fino al 28 è chiuso. Eppure anche in questa dimensione austera, decisamente poco “fiestera” c’è qualcosa che mi fa sentire profondamente a mio agio. E’ il valore delle monete piccole. Quelle da uno o due centesimi. Quelle che a Milano sono reiette, dimenticate, arrotondate alla cassa del supermercato o altrimenti rimbalzate nei cappelli dei mendicanti. Non qui. Qui si contano. Si mettono via. Servono, seppur nella loro modesta caratura ramata ben lontana dalle loro nobili sorelle scintillanti e coronate d’oro da un Euro e più. Qui le cose piccole hanno ancora un senso. Sia per chi, suo malgrado, ha dovuto cominciare a valutarle, sia per chi non ha scordato (la gratitudine è una gran cosa) che da li è partito. Lo stesso vale per le sfumature dell’opinione. Che sono monetine rispetto ai “fatti concreti”. Ma sono quelle che portano la gente in piazza, creano partecipazione e, a volte, fanno girare la ruota. Cosa le accomuna alle monetine? Che servono a placare la fame. In un mondo in cui la fame costringe la gente a riflettere e ad agire. Perché lo stomaco che reclama è una compulsione all’intelligenza. E qui la fame certo non manca. O perlomeno non viene sedata da quella sorta di anoressia neuronale in cui sembra sprofondata l’Italia. Ma andiamo al sodo. E contiamo le monetine. Sabato scorso sono andato in un bar per incontrare un amico. Un amico italiano che vive qui da parecchio tempo. Uno di quelli che “se la passa bene”, che gode di una certa fama. Uno di quelli che riesce ancora a fare la “bella vita” perché, avendo la cosiddetta testa sul collo, anno dopo anno, monetina su monetina ha fatto una discreta fortuna. E birra dopo birra (che qui, costando in proporzione meno dell’acqua, di fatto conviene), esauriti i tipici convenevoli sugli anni che per chi non si vede spesso sembrano non passare mai (se non fosse per i capelli grigi, la pancia, le rughe e altri del tutto trascurabili e invisibili dettagli), si passa allo sport preferito degli italiani. Che non è il calcio. E’ il “lamento a stile libero”. E dato che questo amico, vive da molto tempo in Spagna, un po’ per quella sindrome da “mo’ ti spiego” che prende tutti gli italiani (me compreso) che trascorrono più di una settimana all’estero, un po’ perché di spunti lamentosi originali sull’Italia non ne sono rimasti molti, ecco partire in quarta la “lamentatio iberica maxima”. “Eccerto – dice - sai: qui ci sono centinaia di sfratti esecutivi al giorno. Arriva la polizia. Comincia a bussare. Poi scardina la serratura. E appena riescono a entrare, gli appartamenti sono vuoti perché i proprietari si sono appena lanciati dalle finestre. Solo questa settimana, se non sbaglio è già successo cinque volte. E sai perché? Perché qui la gente è cogliona. Ha passato anni credendo di essere chissà chi. Vuoi una casa? 40 anni di mutuo ed eccola qui. Vuoi una macchina? La paghi in cinque anni. Vuoi la TV al plasma? 4 anni di rate che neanche te ne accorgi. E adesso si lamenta, piange e si butta dalla finestra. E pensarci prima?”. Già, penso io. Effettivamente mi ricorda un po’ la storia dai nativi americani. Che, ovvio, potevano prevedere che il whiskey dell’uomo bianco li avrebbe portati alla rovina. Mi ricorda anche, e con un certo ribrezzo, la retorica del “se la vanno a cercare” del prete di  Lerici. Ma non finisce qui. Sull’onda dell’ennesima birra, scatta il secondo round. “Mi girano veramente i coglioni, mentre sono li, che faccio la fila in banca e vedo questi uomini, queste donne che implorano con i bambini piccoli in braccio. Piagnucolano, fanno la sceneggiata. Ma siamo matti? Perché cazzo metti al mondo i figli se non te lo puoi permettere! Infilati un preservativo! Un po’ come questa storia delle ragazze che si prostituiscono per pagarsi gli studi (ndr: qui è un fenomeno praticamente “esploso”, alla luce del sole e talvolta incoraggiato dalle famiglie stesse). Ma che studi! E’ che queste vogliono l’IPhone, i vestiti firmati. Qui la danno via, mica vanno a fare le commesse”. Vorrei escludere il finale. Nel senso cha avrei preferito non udirlo. Ma, essendo la chiave di volta di tutta la conversazione lo riporto piatto piatto. “Guarda, lo sai, io sono uno di sinistra. Ma da quando sono qui provo ammirazione per Berlusconi”. L’ultima volta che avevo sentito una tale raffinatezza politica era stata in occasione della “discesa in campo” di Iva Zanicchi. Che in qualche modo, aveva il suo perché. La serata ovviamente si è chiusa a questo punto. Se mai aveva avuto un senso, quel senso era perso. E anche io mi sentivo un po’ perso. I veri amici non è che si tirino su con la pala, ma come si fa a considerare amiche persone che ragionano così? L’interrogativo, per quanto mi riguarda rimane aperto. Forse perché, diventando vecchio la solitudine comincia a darmi un po’ di pensieri. No, non è così. E’ che a volte anche dietro le “sparate” più imbecilli c’è altro per cui valga la pena. E’ che, invecchiando, pur restando monoliticamente fedele a me stesso, ho abbandonato la presunzione di cambiare gli altri. E li prendo per quello che sono. In ogni caso, sabato notte, tornando a casa in bicicletta per le strade deserte di Barcellona ho sentito un profondo senso di umanità. Solidale e partecipata: vibra anche adesso. Per le persone che comprano il televisore a rate. Per le ragazze che la danno via per soldi e che con quello che tirano su ci facciano un po’ cosa pare a loro. Per quelli che non si mettono il preservativo. Per quelli che comprano con le monetine a Barcellona, e per quelli che le chiedono. Per quelli che hanno creduto di essere felici e si sono sbagliati. Perché sbagliarsi è un attimo. Così come ritrovarsi dall’altro lato della strada a contare le monetine da un centesimo. Ed è, tutto sommato, una gran fortuna che non sia ancora successo a me, che al contrario del mio amico, la testa a volte ce l’ho un po’ dove capita.

Sunday, November 18, 2012

MEZZANOTTE A SARAJEVO

Domenica sera. Anzi lunedi. Proprio in questo momento. E nel cazzeggio annoiato di fine weekend rileggo su Facebook il messaggio di Francesca che, incuriosita, qualche giorno fa mi chiede "perchè Radio Sarajevo". Già, perchè ormai quasi 7 anni fa (mese più mese meno) ho deciso di aprire questo blog. Un blog di parole, senza immagini, su fondo nero. La risposta che le avrei dato in quel momento è "in realtà mi chiedo come mai ci sia ancora". Ma in quel momento no, era dovuta una risposta migliore. Perlomeno non un'altra domanda. Qualcosa di autentico. Ho quindi cercato di ritrovare quel momento, era una notte ed era di domenica, in cui questo spazio buio e un po' angusto (non per me che lo abito ovviamente) ha avuto una forma. Quella di una voce metallica e sottovoce, come quelle della radio di notte. Una voce di parole e di confessione. Una voce nuda e senza troppe pretese (chi trasmette di notte non può avere giocoforza deliri di fama e celebrità). Ma una voce carica. Svincolata dalla necessità di un senso e dai rigori della logica. Una voce che raccoglie segnali deboli per dar loro voce. E quindi racconta storie. Alcune vere. Altre inventate ma, proprio per questo, forse anche più vere. La voce di Sarajevo, una delle città al centro di una mia geografia immaginaria. La voce di una città che risponde all'assedio con la sommossa, dove di giorno ci sono state le bombe che sventrano le case, ma dove la gente, di notte, si trova nelle cantine a bere, ballare e suonare la fisarmonica. Non per dimenticare, ma per ricordarsi di vivere, anche se quel vivere è condizionato a una pistola nella cintola o alla clemenza della fortuna. E con tutta questa provvisorietà è fin troppo ovvio che le trasmisssioni di Radio Sarajevo siano quando capita e quando si può. E più volte le porte sono state chiuse e più volte riaperte. Senza mai trovare, ne cercare una collocazione o una linea da seguire. E, sorprendentemente, mi sono accorto che gli anni sono passati e che Radio Sarajevo è sopravvisssuta, anche ai tentativi di assassinio perpetrati dal suo stesso autore. Mi sono accorto che ci sono cose che vanno avanti da se, senza nessuna spinta, senza nessuno sforzo. Che a volte dire basta serve per poter affermare ancora, per riprendere convinzione e riassestare le gambe. Quindi grazie, Radio Sarajevo, per essere stata la mia voce che ha dato voce ad altre voci. Grazie per essere stata discreta compagna notturna dei miei disordini e sussulti. Per aver dato forma alle mie idee e alle mie emozioni. E per aver continuato a trasmettere da una città lontana, in uno studio arrampicato all'ultimo piano di un edificio bombardato. E avermi insegnato che l'inverno si può vivere per quello che è. Senza la necessità di attendere la primavera. Perchè comunque, qualsiasi sia la stagione, le notti delle radio sono sempre le stesse. E sono buone notti. E tu, Francesca, sai cosa intendo.